Il tartufo tra mito e realtà

Il tartufo è un fungo ipogeo, che nasce e si sviluppa sottoterra. Costituito in gran parte da acqua, fibre e sali minerali, vive in simbiosi con le radici di alcune piante che gli trasmettono le sostanze organiche, tra cui il cerro, il tiglio e il nocciolo. Sono numerose le caratteristiche che lo distinguono e che lo rendono così attraente per il nostro palato, ma non è facile descriverne il sapore.


Antonella Brancadoro è il Direttore dell’Associazione Nazionale Città del Tartufo, e con grande partecipazione ci descrive il significato di questa conquista:

“Questo riconoscimento ha rappresentato per noi un premio speciale. Un premio per l’impegno e la dedizione, un podio conquistato grazie a un lungo percorso durato 10 anni: raccolta di documenti, interviste, foto, organizzazione e ricostruzione di memorie, spesso orali, divenute conoscenza e consapevolezza.
In Italia il tartufo c’è sempre stato, con stagioni più o meno ricche e terre più o meno prolifiche per qualità e quantità. Il nostro compito è stato quello di ricostruire una tradizione e documentarla antropologicamente e archivisticamente, trascinando fuori dalla porta delle case dei singoli tartufai un’eredità orale tipicamente privata, per elevarla a sapere di una comunità più ampia, valorizzarla, formalizzarla. Un patrimonio generato e rigenerato costantemente dalle comunità in risposta alla loro interazione con l’ambiente e la storia, contribuendo a creare un senso di identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la biodiversità, la diversità culturale e l’esperienza umana.”

Quali ora i prossimi passi?

“Abbiamo raggiunto una tappa importante del nostro percorso, ma il cammino ora prosegue con nuove e accresciute responsabilità: dobbiamo mettere in atto nel migliore dei modi le promesse inserite nel dossier di candidatura, e arricchirlo di nuove scommesse.
Dobbiamo adoperarci perché vengano diffusamente adottati gli strumenti e le tecniche corrette per trasmetterli alle nuove generazioni di tartufai; favorire la transizione della tartuficoltura dalla dimensione individuale a quella dell’associazionismo; prenderci cura della rinnovabilità dei territori tartufigeni italiani.

La cultura e la pratica dei tartufai trae infatti buona parte del proprio potenziale da una profonda conoscenza dell’ambiente naturale che consente di interpretare i fattori climatici, le precipitazioni, le caratteristiche dei terreni, il riconoscimento di associazioni vegetali e il rapporto con il mondo animale. L’arte della cavatura opera in modo da non alterare le condizioni del terreno grazie all’uso manuale dello specifico strumento, vanghetto o zappino, consentendo in questo modo il mantenimento dell’equilibrio ecologico e della biodiversità vegetale nonché il perdurare della tradizione che assicura la rigenerazione biologica stagionale e la rinnovabilità delle diverse specie di tartufo. Questa profonda conoscenza va valorizzata, arricchita e tramandata.”

Provando a viaggiare attraverso le diverse epoche storiche, scopriamo che il tartufo è sempre stato considerato un cibo magico, al centro di miti e leggende. In special modo fin a quando la cerca e cavatura è rimasta una pratica relegata alle ore notturne, e il tartufaio associato simbolicamente a un animale selvatico che entrava simbioticamente in rapporto con la natura e le sue regole scatenando l’immaginario sociale popolare. Nel tempo si è pensato che il tartufo fosse una pianta, un animale, un’escrescenza degenerativa del terreno, fino a definirlo cibo del diavolo o delle streghe, contenente veleni tossici o mortali.

Sumeri e Babilonesi utilizzavano il tartufo mischiato ad altri vegetali come orzo, ceci, lenticchie e senape. Gli Ateniesi lo apprezzavano al punto che concessero la cittadinanza ai figli di Cherippo, creatore della ricetta di un pasticcio tartufato. Anche Plutarco ne era affascinato: per lui quel fungo nascosto nasceva dall’azione combinata dei fulmini, dell’acqua e del calore.
Nella Roma di Cicerone (106-43 a.C.) il tartufo è “figlio della Terra”; Nerone ne parlava come “cibo degli dei”; nella Naturalis historia, Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) li definisce “callo di terra”.
Nel Medioevo i tartufi vennero considerati alimenti magici e peccaminosi (quindi ancora più allettanti!), quello nero era considerato “sterco del diavolo” e cibo delle streghe, punto di congiunzione tra la fauna e la flora, dal momento che si credeva prolificasse nelle vicinanze di nidi di serpenti, tane di animali velenosi e carne putrefatta di cadaveri.

Una tradizione e una pratica, dunque, tramandata attraverso storie, fiabe, aneddoti e proverbi. Possiamo dire che hanno storicamente descritto e descrivono tuttora un’identità culturale?

“Il solo fatto che questo patrimonio non si sia perso nel tempo, ma sia stato trasferito, seppur in modo informale, di generazione in generazione, dimostra quanto esso rappresenti profondamente l’identità storica di diversi popoli.
Basta poi andare a visitare i borghi, i paesi, le città del tartufo per vedere come questa pratica influenzi profondamente la cultura di un territorio, definendone i caratteri distintivi e i principi identitari: scandisce festività e calendari, condiziona l’economia e la struttura cittadina. Dall’attesa della stagione alla cerca e alla vendita, il tartufo è protagonista di una tradizione allargata che contamina l’intero vissuto locale.”

L’essere stata riconosciuta come pratica a livello nazionale e non locale, rischia forse di penalizzare le differenze e le peculiarità dei diversi territori?

Un patrimonio unico, un’identità forte, oggi proiettata nel futuro con un compito di attività sostenibile.


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