L’imprevedibilità della vita
Storia del Conciato Romano

Quando mi è stato chiesto di dare un contributo al racconto del concetto di imprevedibilità, tema ispirato dall’esperienza odierna, dove l’insorgere della pandemia, parola poco conosciuta e che mai avremmo voluto vivere, è stato causa di cambiamenti e adattamenti, ho subito pensato ad alcuni amici che ho incontrato nel Casertano e di cui ho raccontato nel mio libro Terra. Riscoprire le nostre origini per costruire un futuro migliore.

A volte improvvisi impedimenti ci costringono a virate decise, il destino porta a trovarci su un percorso non preventivato: pensiamo a quanti laureati, persone che hanno studiato per una determinata professione che per un motivo o per un altro poi non esercitano e, ritrovandosi forse anche più felici e realizzati. La vita è strana e imprevedibile ed essere pronti per ogni evenienza è un punto di forza, per affrontarla nel migliore dei modi.

Ecco il racconto di Franco, Fabio e Manuel.

“Il Casertano è una provincia molto ampia. La cosiddetta 'Terra dei fuochi' occupa appena il tre per cento dell’intero areale. I camorristi hanno quindi inquinato una parte minima di questa provincia, dove loro stessi vivono, dove crescono i propri figli. A questo arriva la loro stupidità. È come accumulare sporcizia e metterla sotto il tappeto buono in salone! È un luogo comune che tutto il Casertano sia inquinato.
La Terra dei fuochi c’è, è una realtà orrenda, ma è un fenomeno limitato rispetto al resto del territorio in cui la gente onesta e rispettosa vive, lavora e si spacca la schiena ogni giorno per preservarlo, amandolo più di ogni altra cosa al mondo.
E proprio qui, nell’Alto Casertano, ho incontrato una delle famiglie più belle dell’umanità (anzi più belle per umanità) che mi sia mai capitato di conoscere nella mia vita.
Franco, un uomo di piccola statura, la camicia a quadri e il cappello che non riesce a coprire del tutto il viso luminosissimo, fa il pastore da trent’anni. La sua azienda agricola un tempo era del padre e prima ancora del nonno. Lui, negli anni Settanta, è emigrato all’estero, in Belgio, ma poi la nostalgia per le proprie radici lo ha riportato a casa.

«Quando ero giovane, a fare il pastore non ci pensavo proprio, non si guadagnava niente, era un mestiere che avrei preferito non fare. Poi, francamente, non mi sentivo portato. Io sono piccolino e per fare il contadino e il pastore ci vogliono fisico e fiato. Col tempo però ho imparato e ho anche cambiato idea».

Ma c’è qualcosa che, nel discorso di Franco, ancora non emerge, è come se mi stesse nascondendo la verità, non riesco a capire fino in fondo cosa lo abbia convinto, cosa davvero lo abbia spinto a innamorarsi del lavoro che fa.

«Sto realizzando il sogno di mio figlio Fabio. Sognava di diventare un giovane agricoltore capace di rilanciare i prodotti e le bellezze di questi luoghi così mal raccontati. Lui qui è riuscito a riconoscere un grande valore, e ci credeva con tutto se stesso. Sapeva vedere oltre. Era un ragazzo bellissimo e aveva il cuore grande. La sua visione è quello che oggi stiamo realizzando. Voleva fare l’agricoltore nell’Alto Casertano. È morto undici anni fa, ribaltandosi con il trattore, in questo stesso campo, aveva solo ventidue anni».

Mentre lo dice non china la testa, è così fiero di quel figlio. La sua commozione e il suo dolore sembrano sorridere. Ma non voglio essere frainteso: quel male Franco lo sente profondissimo e purtroppo quotidiano, non lo abbandona mai:

«Fabio è la nostra forza. Il nostro faro. La nostra guida. Il suo sogno è il nostro sogno. È sempre qui insieme a noi».

Io non lo so quale abisso di dolore ci sia dentro agli splendidi occhi teneri e buoni di Franco. So che dentro di lui c’è qualcosa che non conosco, che resterà probabilmente per sempre inesplorato, come le crepe nel ghiaccio del lago del Matese. So, però, quanto quel dolore taciuto sia reale, vero, intenso e quanto lo renda la più bella persona del mondo, forte e fragile allo stesso tempo, sensibile e umanissimo. Una realtà e una verità che mi fanno commuovere.

Quando lascio Franco vado a trovare l’altro suo figlio, il fratello grande di Fabio, Manuel, che nel frattempo sta dando da mangiare ai maiali. È la tipica razza di questa zona, chiamata erroneamente Nero Casertano. In realtà il colore di queste bestie è grigio ardesia. È un animale autoctono riscoperto e custodito grazie all’immane lavoro di Slow Food con i suoi presidi di dignità. Manuel mi porta a vedere dove lavorano il loro prodotto migliore, il mitologico Conciato Romano, conservato dentro ad anfore di terracotta. Si tratta di un pecorino che può essere definito il padre di tutti i formaggi italiani, il più antico, risalente addirittura all’epoca sannita. Manuel faceva l’informatico e non ci pensava proprio alla campagna, ci andava di domenica a trovare i genitori e il fratello contadino. Poi tutto è cambiato all’improvviso. Ora, anche se il suo cuore piange la scomparsa dell’amato Fabio, è felice di far parte del sogno di suo fratello.
Manuel e la sua famiglia sono tra i pochissimi produttori al mondo di questo pecorino.

«È un prodotto tanto identitario che consente a questa zona del Casertano di essere conosciuta fuori dai suoi confini. È il nostro ambasciatore del buono. Si fa con latte crudo e senza aggiunta di fermenti. Il pecorino viene prima essiccato nei casali, dove da fresco a mano a mano si indurisce».

La mamma di Manuel, moglie di Franco, mi fa vedere come il formaggio, una volta indurito, viene prima immerso nell’acqua dove è stata cotta la pasta fatta in casa (un’acqua piena d’amido), poi viene asciugato con dei teli fatti di canapa, e infine si infila nell’anfora aggiungendoci dentro anche un po’ di piperna (una sorta di timo raccolto nel mese di maggio, quando è in fiore), un po’ di peperoncino, un goccio di vino Casavecchia e infine olio extravergine di oliva Caiazzana. Si mette un tappo all’anfora e ogni dieci giorni bisogna smuoverla ruotandola, per fare in modo che il formaggio assorba tutti i sapori. Lì dentro ci rimane almeno sei mesi. Grattugiato sugli scialatielli (così buoni da farti scialare), la tipica pasta fresca del Casertano, è paradisiaco.
Franco, Manuel e le loro mogli hanno aperto un agriturismo a conduzione familiare. Qui i loro prodotti vengono serviti direttamente sulla tavola degli ospiti che, come me in questo momento, sono trattati quasi fossero persone di famiglia. E io, da questa famiglia, non vorrei andarmene mai più.”

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