IMPARARE DALLA STORIA

Per resistere ai cambiamenti climatici e ai loro effetti devastanti dobbiamo riprendere in considerazione tradizioni millenarie. È la nuova sfida per i progettisti. Che oggi possono contare sulla tecnologia per adattarsi ai capricci della natura

Racconta Sandra Piesik, architetta londinese di origini polacche da anni impegnata nello studio dei cambiamenti climatici, che l’ispirazione le è venuta a Dubai, dove si trovava per seguire il cantiere di un grattacielo e dove è stata invece folgorata dal deserto e in particolare dalle tecniche dei beduini nella lavorazione delle foglie di palma per costruire velocemente capanne leggere e robustissime.
È rimasta sette anni negli Emirati a studiare gli ambienti esterni, quelle strutture e le loro possibili evoluzioni. Grazie ai suoi esperimenti e alla tecnologia, alla fine è riuscita a creare ambienti di 500 metri quadrati, anche se le capanne beduine misuravano poco più due metri di lato.

Possiamo dire che Sandra Piesik ha fatto il salto. Ha sperimentato in prima persona quel cambio di paradigma che i cambiamenti climatici e la tutela del pianeta ci impongono e che dovrebbe spingerci ad abbandonare i codici globali dell’international style, le certezze del cemento, dell’acciaio e del vetro, per ragionare invece sulla vita di un edificio, sul rapporto che instaura col contesto in cui si trova, sull’uso che ne fanno le persone che lo abitano.

Il tema è cruciale, ed è diventato parte dell’agenda politica mondiale l'Accordo di Parigi, adottato alla conferenza di Parigi sul clima (COP21) nel dicembre 2015, in cui i 195 Paesi presenti hanno tracciato una road map che oltre a imporre limitazioni alla produzione di CO2 e incentivare le fonti alternative di energia, propone di adattare ai bisogni di oggi le tecnologie costruttive indigene, un vero tesoro di scoperte e invenzioni frutto di millenni di storia dell’umanità.
Sandra Piesik ne è convinta e le sue ricerche, dopo l’esperienza nel deserto mediorientale, si sono allargate al mondo.

Ora sono contenute in un libro, Habitat: Vernacular Architecture for a Changing Planet (Thames & Hudson).
A partire dalla mappatura del pianeta di Köppen-Geiger che suddivide il globo in cinque zone climatiche – tropicale, secca, temperata, continentale, polare – l’autrice ha accostato le immagini delle architetture tradizionali di ciascuna fascia.

In questo modo ha scoperto per esempio che in zone altamente sismiche ci sono edifici di legno e manufatti a base di terra che reggono da secoli; che in Paesi tra loro agli antipodi, ma situati in una medesima fascia climatica, si è sviluppata un’architettura molto simile realizzata con lo stesso genere di piante; che tutte le società delle aree secche costruiscono con terra, paglia e foglie di palma.
Il legno, la pietra e i mattoni sono invece tipici della fascia temperata e hanno dato vita a stili architettonici – soprattutto quelli europei – che hanno invece finito per colonizzare molte zone del pianeta.
La modernità e la globalizzazione hanno così diffuso tipologie aliene e inadatte al clima, che hanno cancellato l’originalità e l’uso dei materiali naturali locali, reso più difficile l’opzione del design sostenibile, creando i presupposti di una resilienza ecologica.

Per il futuro, Piesik ne è certa, il concetto chiave è la capacità di adattamento.

L’imprevedibilità dei cambiamenti climatici ci impone un approccio completamente diverso. Se vogliamo evitare che gli effetti più devastanti si abbattano su di noi, dobbiamo sposare un approccio olistico e multidisciplinare che fonde i vantaggi della tecnologia con le soluzioni sviluppate dall’uomo nei millenni così da poter affrontare le sfide della natura.
Stefano Rugginenti, ingegnere nucleare di formazione, ma docente di Fisica tecnica e sistemi energetici al Politecnico di Milano, ricorda che:

È proprio la tecnologia a permetterci di adattarci. Ci aiuta a immaginare e verificare a priori, non solo la fattibilità, ma anche il funzionamento e la sostenibilità di un progetto. Oggi disponiamo di sistemi di controllo dinamici e predittivi che ci permetterebbero addirittura di modulare l’immissione di energia solo in base alla necessità, perché i problemi complessi vogliono soluzioni complesse. Come complessa è la natura”.

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