IL FATTORE
IMPREVEDIBILE
NEL FASHION
SYSTEM
Come l’industria della moda ha saputo reagire all'assoluta imprevedibilitàdel Covid-19
Io non perdo mai,
o vinco o imparo
Nelson Mandela

Imprevedibile, ovvero, che non si può prevedere. Proprio la “non possibilità” di prevedere, pianificare, è il fattore destabilizzante che racchiude questa parola. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che qualche mese fa la nostra solita vita si sarebbe ingarbugliata e ci avrebbe diviso, che la quotidiana corsa si sarebbe fermata e noi ritrovati a ripensare tutto: il sistema economico, il modo di consumare, l’idea della sostenibilità, il pianeta, i rapporti interpersonali, noi stessi…

La pandemia ha imposto un tempo sospeso, doloroso ma anche di riflessione. Un tempo in cui apprendere, sperimentare, pensare. Nelson Mandela diceva “Io non perdo mai, o vinco o imparo”, e proprio questo il mondo sembra aver provato a fare: imparare. A condividere, a trovare nuove strade e nuovi mezzi. C’è chi si è inventato balconi cantati, chi ha trasformato le madri in novelle couturière di mascherine trendy, chi ha scoperto che dare un aiuto agli altri rende felici, chi ha imparato a fare il pane e chi si è inventato corsi online… Gli italiani sono un popolo d’infinite risorse, hanno tesori di fantasia e di cultura. E la moda, il cui comparto nel nostro Paese ha una notevole incidenza – consideriamo tutta la filiera, non solo quello che è la vetta finale, l’oggetto, il capo da acquistare –, non è stata da meno nel voler reagire e agire di fronte a questo tempo difficile.

Prendo qui a esempio le parole di due direttori creativi italiani dalle pagine dello scorso numero di aprile di Vogue Italia: Pierpaolo Piccioli, della Maison Valentino, e Gherardo Felloni, alla guida del marchio di calzature di lusso Roger Vivier.

«Approfitto della distanza sociale per riflettere e rivedere un po’ tutto, dai valori profondi al modo con cui questi possono poi essere trasmessi attraverso il mio lavoro», diceva Piccioli. «La moda dovrà trovare il modo per andare avanti… Voglio che le collezioni che usciranno non riflettano, ma sappiano reagire a questa fase: con leggerezza, poesia e con più sogno di prima. Credo che tutti avremo bisogno di sognare».
Gherardo Felloni, poi, si diceva sicuro che questo momento critico ci avrebbe trasformato in persone migliori.
«Rimarremo i soliti consumatori bulimici?», si chiedeva. «Ne dubito. I vincoli allo spostamento e le ristrettezze di questi giorni ci sbattono in faccia, dolorosamente, di aver dato tante, troppe cose per scontate, a partire dal cibo, la salute, la vicinanza fisica delle persone che amiamo. E ci insegnano a discernere più saggiamente tra essenziale e superfluo...».

I brand dell’industria della moda, colti dall’imprevedibile, hanno reagito in vari modi. Subito, Giorgio Armani ha scelto di sfilare a porte chiuse durante la Fashion Week milanese; Alessandro Michele di Gucci ha poi annunciato la decisione di ridurre a due gli appuntamenti annuali, conscio che questo rallentamento potrebbe essere «ossigeno anche per i piccoli, perché il sistema permette di correre solo ai grandi». Mentre Chanel lo scorso giugno ha anticipato la scia di iniziative globali che vedono le settimane della moda scegliere come “luoghi” le piattaforme online, svelando sui social la sua Cruise 2020/21: una collezione dedicata al mare, ai profumi del Mediterraneo, ed eco-responsabile, realizzata con tessuti già in magazzino e con capi trasformabili per il giorno e la sera.

Reazioni immediate, dunque, positive, affiancate a una molteplicità di iniziative, benefiche, culturali, educative. Molti brand hanno convertito parte della loro produzione per realizzare mascherine antivirus e camici protettivi: il primo è stato il Gruppo Miroglio, e poi Prada, il Lanificio F.lli Cerruti, il colosso LVMH, e poi Balenciaga, Saint Laurent, Dior, Havaianas, Burberry, H&M, Supima; Safilo con maschere di protezione e visiere facciali per gli ospedali italiani con il marchio Carrera, in Spagna con l'eyewear Polaroid e, negli Stati Uniti, con il brand Smith. Mentre il Gruppo spagnolo Pronovias ha donato un abito alle future spose che, negli ospedali di tutto il mondo, hanno con il loro lavoro fronteggiato la pandemia. Impossibile citarli tutti, ma a qualsiasi latitudine tutti si sono impegnati, anche con sostanziose donazioni e operazioni di crowdfunding.

Molte sono state anche le iniziative digitali, con l'obiettivo di condividere con le persone a casa sentimenti positivi: dai workshop di Dolce & Gabbana per raccontare il fatto a mano; o il #MirrorTheWorld, la campagna digitale di Vivienne Westwood in collaborazione con artisti, scrittori, poeti, musicisti, accademici e attivisti da tutto il mondo per creare e condividere contenuti creativi e gettare nuovi ponti tra cultura e spettatori.

Fino alle iniziative dedicate ai più piccoli: attraverso l’hashtag #McQueenCreators, il brand li ha invitati a creare – con l’aiuto di tutorial – bozzetti, stampe, ricami e oggetti tridimensionali con quello che si ha in casa. Il Consorzio Cuoio di Toscana, con il supporto di Unic, l’Associazione delle Concerie Italiane, sta poi sviluppando un progetto educativo per le scuole primarie e medie inferiori che vuole far riscoprire la bellezza del lavoro manuale: con la possibilità di incontrare designer, inventare un oggetto, realizzare una scarpa… Tutto questo si spera a partire da settembre, a scuole riaperte.

Pierpaolo Piccioli parlava di sogno, Gherardo Felloni di capacità di discernere tra essenziale e superfluo… Che altro sono alla fine se non i due capi di un filo che gira intorno al nostro pianeta e che si chiama sostenibilità? Una parola che la pandemia ha portato ancor più in primo piano mettendoci sotto il naso che le acque di Venezia possono essere pulite, che il tasso di inquinamento può scendere, che il nostro pianeta può tornare a “respirare”. E quindi noi con lui. Sostenibilità: tutti vogliamo che non sia un semplice trend, utile a creare fatturato immediato come spesso la moda è accusata di fare, ma un benessere a lunga distanza.

E il sistema moda si sta impegnando a renderla possibile: lo dicono le linee guida relative ai requisiti eco-tossicologici per l’abbigliamento e gli accessori ma anche per le aziende manifatturiere e il retail, lo raccontano i dati delle concerie, dove oggi le sostanze inquinanti sono molto diminuite rispetto a trent’anni fa. Lo sottolineano gli sforzi per attivare un’economia circolare – tracciabilità, inizio e fine della vita del prodotto, e quindi riuso e riciclo –, la ricerca di un’eguaglianza economica per le donne, l’impegno per la diversity… Basta leggersi il Manifesto della sostenibilità stilato dalla Camera nazionale della moda italiana già nel 2012, seguire i Roundtable che ogni anno ne aggiornano i temi, facendo il fuoco sulla sostenibilità sociale e sulla tecnologia, per esempio…

Certo, la strada è lunga, e dalle maglie virtuose che si stanno cercando di creare molto ancora sfugge. E forse bisognerebbe cambiare prospettiva, e da azioni che tendono a ridurre l’impatto negativo, cercare di generarne di positive. Costruendo una catena virtuosa per cui i brand sanno davvero chi sono i loro fornitori, come lavorano, impiegando le persone che producono i loro prodotti invece di cercare il minor costo…

Perché alla fine “less is more”.
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