L’INGANNEVOLE ESTETICA DELL’IMMATERIALITÀ

Da quando si è presa coscienza delle dimensioni e della complessità della crisi ambientale sono apparse tante parole d’ordine che via via identificavano un’innovazione che prometteva di essere salvifica, o quantomeno di dare un contributo più che sostanziale alla soluzione del problematico rapporto tra umani e “resto della natura”.

Nel tempo si è quindi stratificato un vocabolario di definizioni, formule, sigle identificative di possibili magic buttons da premere per avviare il processo che ci avrebbe riportati in equilibrio con l’ecosistema terrestre.
Uno di questi mantra si chiama tuttora dematerializzazione, ovvero l’idea che stile di vita, benessere e prosperità cui siamo abituati si potessero mantenere senza più compromettere la base di risorse essenziali per la nostra sopravvivenza.
Come?
Usando meno risorse materiali a parità di servizi o beni forniti.
Usarne meno o non usarne per nulla, dematerializzare fino a smaterializzare.
E dove si trova il pulsante magico se non sulle tastiere dei nostri computer, per moltiplicarsi poi su altri device?
Ciò che ha reso possibile immaginare di dematerializzare l’economia (strategia che andava in coppia con l’altro mantra, il “decoupling”, il disacoppiamento tra crescita economica e crescita del consumo di risorse) è in buona parte il trasferimento di attività basate su supporti fisici a supporti digitali.
Da materia a dati. Da materia a niente, quindi?
Naturalmente non è così.
Tant’è che al costante espandersi della digitalizzazione (oggi gli utilizzatori di internet superano i 4,1 miliardi) le emissioni climalteranti non hanno mai smesso di crescere, se si eccettua il temporaneo rallentamento imposto dalla pandemia (-6,4% dopo decenni di crescita inarrestabile).

La stessa cosa si può dire del consumo di risorse, visto che, secondo il più recente Circularity Gap Report, abbiamo superato la soglia record di 100 miliardi di tonnellate di risorse consumate in un anno.
Semplificando, digitalizzare non fa rima con decarbonizzare, e anche per dematerializzare sembra esserci un problema. Eppure siamo in presenza di un concetto senza dubbio di estrema eleganza. Troppa, probabilmente, al punto da risultare ingannevole e assumere il valore di una sorta di formula magica.
Prendiamo in esame uno dei trend di digitalizzazione diffusa di cui abbiamo fatto esperienza più diretta anche a causa della pandemia di COVID-19, ovvero l’e-commerce: un fenomeno che ha registrato una eccezionale impennata, complice il lockdown che complicava gli spostamenti e che orientava verso il consumo on-line.
Il trend del settore era già a doppia velocità da tempo. Ed è quasi banale sottolineare come uno dei feedback negativi di questo fenomeno sia l’aumento del trasporto su gomma di beni e merci che prima venivano acquistati senza necessariamente mettere in moto un veicolo.
Non è un caso che nel 2019 Amazon abbia annunciato un ambizioso piano di sustainable operations, volte a ridurre l’impatto delle proprie attività in termini di emissioni di carbonio.
Ma ci sono aspetti meno evidenti del rapporto diretto tra crescita del digitale e impatto ambientale.
Uno dei fenomeni di dematerializzazione più riusciti riguarda senza dubbio il nostro modo di comunicare. Ma la sostituzione di un supporto fisico con uno immateriale non è priva di conseguenze spiacevoli: una singola email, se priva di allegati, produce circa 4 grammi di CO2 e il numero di email che inviamo e riceviamo durante una singola giornata di lavoro è in crescita costante.
E questo non è che un semplice indicatore di un globale fenomeno di inquinamento digitale prodotto dall’alimentazione dell’infrastruttura che permette il funzionamento delle reti.
Il numero di utilizzatori della rete, la quantità di dati da elaborare (ad esempio: quante ricerche sui motori di ricerca effettuiamo quotidianamente?), la potenza necessaria e l’energia che di conseguenza viene consumata sono a oggi responsabili del 3,7% delle emissioni globali di gas serra, un valore vicino a quello attribuito al trasporto aereo.

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E lo sviluppo della IoT (Internet of things), di un uso sempre più pervasivo della sensoristica, dei sistemi di intelligenza artificiale (IA), della smart city sono tutti fenomeni che lasciano presagire un aumento esponenziale di tale impatto.
Per non citare quello già del tutto presente che riguarda l’estrazione di materiali essenziali al funzionamento dei device digitali, come le terre rare. Tant’è che oggi stanno facendo la loro comparsa i primi sistemi di rating di sostenibilità digitale, in attesa che arrivino le Ecolabel (e possibilmente le certificazioni di carattere etico) anche per la produzione di smartphone, tablet & c.
Secondo dati citati dalla Commissione europea, l’impronta di carbonio dell’intero settore digitale ammonta oggi a 6.800 TWh di energia primaria e 7,8 milioni di metri cubi di acqua (acqua dolce, naturalmente, la stessa essenziale per usi agricoli, domestici e per moltissimi altri settori produttivi).
Quindi certo, l’avvento della digitalizzazione sta portando alla progressiva scomparsa di tanti oggetti fisici. Ma è inutile cercare sulla nostra tastiera il pulsante magico, non c’è o forse è Ctrl + Q, esci. E spegni.
Ma possiamo comunque provare a contribuire a diminuire la nostra impronta digitale. Come?
Una delle principali forme di inquinamento digitale, detto “inquinamento dormiente”, è causato dal traffico e archivio di email, che fanno girare a pieno ritmo i data center ininterrottamente. I data center devono essere permanentemente climatizzati e raffreddati, consumando molta energia. Il ciclo di vita di una email da 1 megabyte vale 20 grammi di CO2: l'equivalente di una lampada da 60 W accesa per 25 minuti. Venti email al giorno in un anno emettono la stessa CO2 di un'auto che percorre 1.000 km.

Utilizziamo i collegamenti ipertestuali invece di allegare documenti, e se dobbiamo inviarli, comprimiamoli. Evitiamo le firme digitali, in particolare immagini che appesantiscono gli invii; limitiamo l’email marketing e gli invii di massa, e non rispondiamo “a tutti” se non necessario; cancelliamoci dalle newsletter che non ci interessano; cancelliamo regolarmente la posta letta, o indesiderata, e svuotiamo il cestino; limitiamo l’uso dei motori di ricerca andando direttamente al sito con l’URL se lo conosciamo, e utilizziamo i “preferiti”.
Teniamo inoltre conto che oggi l'80% di tutti i dati trasferiti online è costituito da dati video, e il 60% di questi video sono archiviati su un server e visualizzati in remoto, tramite piattaforme di streaming. Ogni giorno, le persone guardano più̀ di un miliardo di ore di video su YouTube.
Proviamo a fare download dei video o delle canzoni che ci piacciono, e ascoltiamole off-line; limitiamo l’utilizzo del cloud (esistono anche provider di cloud green) e archiviamo i nostri dati su un hard disk; spegniamo sempre il computer e scolleghiamo i caricabatterie; impostiamo la modalità̀ di sospensione sul dispositivo dopo un certo numero di minuti.
E soprattutto, ovviamente, stiamo lontani dalla seduzione del consumismo digitale; conserviamo tutte le nostre apparecchiature digitali il più a lungo possibile. Resistiamo alla tentazione di possedere l’ultimo modello di… tutto.

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