Intervista al fondatore di Eataly sulle grandi serendipità del settore enogastronomico in cui si è imbattuto, raccolte in un nuovo, straordinario libro.
Ricordo il cielo rosso fiamma, un fuoco che divampava verso le nuvole, ma non riscaldava. Anzi, quello che provavo era un forte, e freddo, disagio.
Erano gli anni Ottanta e Napoli Est, dove sono nata e cresciuta, era appestata dalle raffinerie. Anche a dieci anni ti rendi conto che qualcosa non va. Sono cresciuta cercando un ambiente incontaminato, nella consapevolezza che la realtà sia una pagina da riscrivere.
Quell’anno, poco prima di Natale, a Napoli Est scoppiò una cisterna piena di liquido infiammabile, provocando un incendio che si propagò con effetto domino su 25 serbatoi. Le auto furono sbalzate in aria, i muri delle case creparono, i vetri in frantumi anche a centinaia di metri di distanza. Cinque persone morirono, il cielo fu violato da una nube nera e tossica e noi dovemmo scappare via.
Il Natale arrivò mentre contavamo i danni, e tutto a causa di quelle fabbriche, che erano anche il vessillo graficizzato accanto al nome del quartiere, all’uscita dell’autostrada per Napoli: San Giovanni a Teduccio.
Ricordo tutto di quei giorni: le sirene delle fabbriche che suonavano a vuoto, e per anni continuarono a farlo, la puzza nell’aria, che persiste ancora oggi, quando svolti dalla tangenziale e ti addentri in una parte di Napoli dalle enormi potenzialità sprecate.
Affacciata sul mare, costeggiata da ville vanvitelliane, una storia di artigianato e campagne, di cui rimane traccia solo negli annuari conservati nella biblioteca riaperta da poco.
Guardando oggi le mie scelte di vita, sono sicura che traggano tutte origine da quelle osservazioni notturne del cielo e da “quell’incidente” che uccise persone innocenti e cambiò per sempre la mia vita, portandomi a chiedere: perché?
Perché accadde?
E perché continuiamo ad avvelenare acqua, terra, aria?
Perché sopportiamo tutti questi morti in eccesso?
Sono sicura che queste domande accomunano i giornalisti ambientali.
Provare a rispondervi presuppone tante ore dedicate allo studio delle più svariate materie tecniche: chimica, fisica, ingegneria, urbanistica, geologia, biologia. E altrettante ore dedicate a trovare il modo per far arrivare queste informazioni a un pubblico di lettori e spettatori – direi: cittadine e cittadini – ampio e sempre più variegato.
Il mondo è cambiato totalmente da quando, 17 anni fa, vinsi il Premio Cronista dell’Anno, ricevuto al Quirinale dalle mani del presidente Ciampi, con l’inchiesta sull’uranio impoverito.
Un lavoro di ricerca complicato, che si fondava soprattutto su fonti estere, e, in assenza dei social, si nutriva di articoli (sul free press Metro) e reazioni da raccogliere il giorno successivo. Andai di persona in Bosnia, ai confini con l’Iraq, in Kurdistan, Giappone, sulle tracce dell’inchiesta che riuscì a dimostrare la colpevolezza del materiale killer nell’uccisione di centinaia di soldati italiani. Una ricerca in quel campo che continua ancora oggi. Con molte differenze. Il linguaggio, innanzitutto: i social adesso rivestono un ruolo importantissimo nella dinamica di scrittura, nella individuazione delle fonti e delle prove documentali. E oggi chi si occupa di ambiente deve essere in grado di seguire i profili Twitter dei grandi player internazionali sui cambiamenti climatici, ad esempio, gli account ufficiali e quelli bene informati. Deve poter plasmare il linguaggio efficacemente e studiare come catturare l’attenzione nei primi sette secondi di lettura.
Un giorno, era un freddo venerdì di novembre, andai a Trieste per parlare dei danni da uranio impoverito in un caffè letterario. C’erano solo tre persone sedute nel pubblico. Cose che capitano, niente di grave. Ma in quel locale ebbi come una rivelazione: le denunce ambientali, in realtà le tematiche ambientali tout court, rimanevano costantemente appannaggio di un pubblico già attento e sensibilizzato. Insomma: ce le cantavamo e suonavamo tra di noi.
Noi giornalisti ambientali avevamo e abbiamo un dovere verso la collettività: trovare nuovi codici narrativi, nuovi spazi dove far arrivare le informazioni.
C’è un bivio, al quale sembra che siamo chiamati a operare una scelta professionale: è più efficace puntare a una specializzazione dei ruoli e degli spazi, avendo in ogni giornale (che sia carta stampata, online, radio, tv) un settore dedicato all’ambiente, oppure è meglio impostare il lavoro con una permeabilità trasversale, favorendo una formazione ambientale al complesso dei redattori e dei giornalisti di modo che possano interpretare dati, ricerche, studi e notizie, con la giusta lente green?
Non c’è una risposta giusta. Secondo me, la strada migliore dipende dal messaggio, dal tema, dal tipo di diffusione che si vuole raggiungere.
C’è però una parola d’ordine, ed è crossmedialità: oggi il giornalista ambientale deve assolutamente avere la padronanza di ogni mezzo comunicativo per sfruttarne le potenzialità, declinando il messaggio con il linguaggio giusto.
Ad esempio: come ufficio stampa del Ministero della Transizione Ecologica abbiamo deciso di sensibilizzare alla lotta contro i cambiamenti climatici utilizzando il fumetto, la fotografia, la serialità televisiva, la letteratura, la musica, lo sport.
Il messaggio è lo stesso: ognuno di noi, nel proprio vissuto quotidiano, può fare qualcosa per limitare le emissioni di gas climalteranti.
Utilizzando tutti gli strumenti, e anche tutti i social, da Twitter a Facebook ai canali Telegram e Instagram, riusciamo ad arrivare ai giovanissimi, a chi non legge più i giornali, a chi vuole essere sempre informato, agli studenti e agli insegnanti, ai quali forniamo strumenti per le lezioni di educazione ambientale.
Mezzo e sostanza coincidono, ai nostri giorni. Sono interlacciati.
Conoscerne le potenzialità e sfruttarle al meglio è il codice di accesso non solo alla professione, ma al cuore della notizia e all’attenzione dei “lettori”, un termine che può sembrare vetusto, ma che indica la comunità di chi deve “leggere” la realtà attraverso le notizie diffuse. Il giornalismo riveste un ruolo sociale, tutelato anche dalla Carta Costituzionale.
E quello ambientale, secondo me, ha un quid accessorio: l’interesse pubblico alla tutela della salute e della vita.
Ripenso allo scoppio di quella cisterna, alle lingue di fuoco verso il cielo. È l’unica cosa che non è cambiata in questi 35 anni: la necessità di tutelare l’ambiente e di salvaguardare le nostre vite.
Images Credits:
illustrazioni © Laura Zavalloni
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