Serendipity e perseveranza, così hanno fatto di me lo chef della cultura aborigena

Incontro con Jock Zonfrillo

La sua casa è l’Australia, Paese che si definisce anglosassone, ma che in realtà è culla della civiltà indigena più antica del mondo. È quella cultura aborigena che lui aiuta a studiare e preservare, catalogando e cucinando prodotti dalla storia millenaria. Si tratta della casa di un giramondo, che ha scalato la vita gradino su gradino, saltando da burrone a burrone.
Mamma scozzese, papà di origini napoletane, l’infanzia di Jock Zonfrillo a Glasgow non è facile. Ed è la dipendenza, entusiasmante e adrenalinica, dalla cucina che lo salverà da altre più pericolose, in una vita guidata dalla “serendipity”, dagli imprevisti, dagli incontri casuali, e sorretta dall’ostinazione e dalla resilienza.
Perché a volte è necessario “un reset completo, un cambiamento radicale nella tua normalità, una svolta che può essere non pianificata o forzata”, dice appunto Jack Zonfrillo riavvolgendo il nastro di una gioventù accidentata. Dall’emarginazione della Scozia ai fasti della lista Discovery dei 50 Best Restaurants e del Basque Culinary World Prize, e incoronato nel 2018 come uno degli chef più talentuosi e innovativi del mondo.
La giuria del premio, nato per onorare il lavoro dei cuochi impegnati nel migliorare la società attraverso la gastronomia, ha visto in lui il difensore di una cultura ancora poco conosciuta e il capo di un progetto di valorizzazione di un’eredità culinaria che affonda le radici nella preistoria.
Così un italo-scozzese è diventato il più australiano degli australiani, con il suo ristorante Orana – che in aborigeno vuol dire “Benvenuto” –  ad Adelaide e l’omonima Fondazione che è un centro di sperimentazione e di ricerca, un laboratorio.

Un lavoro che è una missione. Che nasce appunto per caso, dopo aver fatto “lo sguattero” – come dice lui – da Marco Pierre White a Londra, girovagato per locali, fatto avanti indietro con l’Australia, cambiato lavoro, provato il disincanto della vita da chef.
Fino a diventare il “matto del foraging” e il campione del cibo indigeno.
Con la sua storia, insomma, la serendipity nel food fa un salto di qualità. Perché lo storytelling agroalimentare – anche se rischia di essere uno strumento abusato – è fondamentale per godere di un cibo oltre le papille gustative. Infatti antiche tradizioni tramandate di generazione in generazione, come pure il marketing di prodotto, trasformano tanti dei cibi in un’avventura, rendendoci dei novelli Cristoforo Colombo che arrivano alle Americhe per puro caso: quanta casualità c’è nell’origine di un formaggio, di un accostamento di sapori, di un uvaggio?!
E Jock Zonfrillo in questa intervista racconta proprio come pensiero laterale, ostinazione, perseveranza, testardaggine, siano ingredienti fondamentali che camminano con la serendipità.

La sua vita è un incrocio di radici, storie ed esperienze. Quanto ha pesato la serendipity?

“Credo assolutamente che tutto avvenga per un motivo.
Probabilmente prima di essere davvero pronto, mi sono prestato a fare qualunque cosa e instancabilmente, dal lavapiatti alla cucina, dalle cucine degli hotel ai ristoranti, dall'essere licenziato da una cucina a una stella Michelin un giorno, all’essere assunto in una cucina tre stelle il successivo. La serendipità di tutto ciò è che non avrei mai immaginato di tornare e chiamare l'Australia ʽcasaʼ e avere il privilegio che gli anziani indigeni condividessero con me le loro conoscenze, vedendomi come un mediatore per la comprensione e il riconoscimento della loro cultura anche attraverso il cibo.”

Cosa serve, quale mindset è necessario per rendersi pronti a fare scoperte felici per caso?

“Serve un reset completo, un cambiamento radicale nel tuo punto di vista. Cedere a una mentalità nuova, in cui non esistono le buone abitudini. L’idea di ʽbuone abitudiniʼ, del ʽsi è sempre fatto cosìʼ, infatti, sembra suggerire che un’azione ripetuta non possa essere migliorata, il che è una stupidaggine.”

Anche l’ostinazione è stata importante nella sua vita. Arrivato a Sydney al Forty One, comincia a interessarsi alla storia dei nativi, al loro patrimonio e ai cibi australiani. Un interesse da chef e ricercatore che i proprietari del ristorante non apprezzano a sufficienza. Ma lei non si è dato per vinto e ha seguito questa strada in modo autonomo. Come è andata?

“La persistenza e la resilienza sono forse le mie due caratteristiche più preziose, anzi ne sono quasi ossessionato. E sono quelle che mi hanno sostenuto nell’attribuire valore al riconoscimento e alla conoscenza della cultura aborigena australiana. Qui non esistono le sfumature, gli aborigeni hanno un legame con il Paese che nessun altro potrà mai avere. La loro cultura è la più antica sopravvissuta al mondo ed è incredibilmente complessa e incompresa.”

Un percorso simile è stato quello compiuto da Alex Atala con le popolazioni della Foresta Amazzonica. Quanto è stato importante l’incontro con lui in Brasile e cosa vi unisce?

“Alex e io ci siamo trovati perché lui condivide la stessa filosofia e principi con gli indigeni dell'Amazzonia. È stato Alex a dedicarmi buona parte del suo tempo per spiegarmi le cose da fare e non fare da un punto di vista politico, trattando con colleghi del settore che avevano punti di vista opposti, critici, e ovviamente facendo attenzione alle convenzioni indigene. Senza la sua guida nei primi giorni, il mio viaggio sarebbe stato molto diverso, e non in senso positivo.”

Lei ha scoperto che ci sono 20.000 specie commestibili native in Australia. Insomma, ha fatto scoprire agli australiani l’incredibile giacimento gastronomico che possedevano e non sfruttavano. Altri l’hanno seguita in questa direzione? Oggi la cucina australiana che percorso sta seguendo?

“Uno dei principali progetti della Fondazione Orana nasce da una richiesta esplicita giunta dagli anziani indigeni. Desideravano codificare in chiave moderna la loro tradizione culinaria. Una codifica che si traducesse in un archivio per poter tramandare, diffondere ed eventualmente commercializzare per i gourmet travellers la cucina indigena.

È stata una missione importante, come lo è stata quella di realizzare un ristorante che si concentrasse sugli ingredienti autoctoni e renderlo noto non solo in Australia, ma anche a livello globale. Se sono riuscito in questo, allora sento di esser riuscito a restituire almeno in parte la fiducia che mi è stata data.”

La sua esperienza tv in Nomad Chef  l’ha visto girare il mondo a provare cibi nei diversi continenti. Quanto è importante che la cucina si riappropri delle proprie radici?

“È un imperativo e, come per gli australiani indigeni, aiuta a formare una piattaforma di affermazione e di riconoscimento culturale che non può e non deve essere ignorata.”

Lei è anche un protagonista di MasterChef Australia. Pensa che la tv possa contribuire a fare della cultura gastronomica e dunque non solo intrattenimento, ma anche informazione/formazione culturale?

“Assolutamente sì, e avere un ruolo in MasterChef è stato ovviamente un altro canale per teletrasportarmi in milioni di case in un modo discreto e gentile, dando allo spettatore a casa l'opportunità di iniziare una connessione con questo fantastico Paese e le persone che ci vivono.”

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