Anche nella scienza, le scoperte accidentali non sono mai puro caso.
Il professor Pievani spiega l’importanza dell’essere pronti ai risultati sorprendenti.
Pomodoro, riso, soia, agave e canapa: se la rivoluzione digitale ha ormai da anni un forte impatto sull’industria automotive, per offrire un’esperienza di guida più sicura e piacevole, quella biologica si sta via via facendo strada, spinta dalla necessità per le case automobilistiche di ridurre il proprio impatto ambientale.
Ecco, quindi, che gli scarti agricoli diventano materie prime per sviluppare i materiali con cui vengono prodotti i vani portaoggetti, i sedili, i cavi elettrici, i tappetini, i pannelli e persino gli pneumatici.
Il motivo che sta alla base di questa rivoluzione nella progettazione e nella realizzazione delle autovetture è legato soprattutto alle normative internazionali, divenute più stringenti sui consumi e sulle emissioni, con l’obbligo per i produttori di portare sul mercato mezzi di trasporto sempre più leggeri. Ciò significa sostituire le parti in metallo con altre in plastica e con materie leggere come le fibre di carbonio.
Secondo gli addetti ai lavori, portare il peso medio delle autovetture dai 1380 chilogrammi del 2015 a 1000 nel 2050 consentirà una riduzione del 40% nelle emissioni di CO2[1].
Già oggi, quindi, una percentuale notevole (circa il 20%) delle auto che escono dalle catene di montaggio è fatta di plastica e si prevede che tale quantità aumenti grazie alle proprietà riconosciute dei polimeri nell’assorbire il suono e le vibrazioni. Ma non solo: questo passaggio graduale a materiali più leggeri consentirà anche costi di produzione inferiori rispetto a quelli attuali e la creazione di cicli industriali più efficienti, necessari per una produzione globale di vetture che, così come riportato dall’ANFIA (Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica), dovrebbe passare dai 73,2 milioni del 2007 ai 110 milioni nel 2022, con il 60% dell’incremento produttivo generato dal 2018 al 2022 assorbito dai Paesi asiatici[2].
Al di là degli usi tradizionali, come le finiture in legno, i tessuti in cotone o i sedili in pelle, le materie prime biologiche sono usate come rinforzo e riempitivo nei biocompositi o per creare polimeri, i quali devono garantire tutte le specifiche tecniche che occorrono a un materiale per poter essere utilizzato nella produzione automobilistica: densità, allungamento, resistenza alla trazione, al calore e alle sostanze chimiche.
E, naturalmente, efficienza dal punto di vista del costo.
[2] ANFIA, Scenario economico e trend industria automotive mondiale 2018
“Forse non siete ancora pronti per questa musica, ma ai vostri figli piacerà.” Così dice Marty McFly alla sua platea sconcertata in una scena clou nel film cult Ritorno al futuro. A volte il genio si imbatte per caso in scoperte e innovazioni che il presente non è ancora pronto ad accogliere e comprendere affatto. La serendipità accade. Non si comanda. Oggi i principali gruppi automobilistici fanno ampio uso di materie prime rinnovabili[3], ma tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta del secolo scorso fu Henry Ford a intravedere il grande potenziale delle automobili biologiche. La sua Soybean Car, presentata come prototipo a Dearborn (Michigan, USA) nel 1941, fatta quasi integralmente con le fibre di soia e alimentata con carburante derivato dalla canapa, puntava non solo a integrare l’industria con l’agricoltura ma anche a rendere disponibile un’autovettura più sicura rispetto a una prodotta in metallo. Con un vantaggio ulteriore: rendersi indipendente dalla carenza di metallo generata dalla guerra allora in corso[4]. La ripresa postbellica lasciò però nel cassetto quel progetto ambizioso, che oggi è rinato in altre forme[5]. La Ford Flex, un SUV 7 posti diffuso soprattutto sul mercato americano, possiede vani portaoggetti prodotti con un biopolimero che origina dal grano ed è rinforzato in fibra di paglia, mentre nei sedili e negli schienali dei modelli Mustang, Expedition, F-150, Focus e Lincoln, solo per citarne alcuni, vengono impiegate schiume poliuretaniche a base di soia. La bioplastica presente sulla Ford Flex consente, secondo dati forniti dalla casa dell’Ovale Blu, di ridurre il consumo di benzina di oltre 9 tonnellate e di evitare l’emissione di CO2 per circa 13,6 tonnellate.
Nel 2014 il gigante automobilistico americano e il Gruppo Heinz, uno dei principali gruppi alimentari al mondo, hanno iniziato a esplorare l’uso delle fibre di pomodoro per sviluppare un nuovo materiale bioplastico sostenibile per i veicoli. “You say Tomato; we say Tom-Auto”, era stato il loro efficacissimo slogan. L’obiettivo: usare le bucce dei pomodori essiccate per produrre staffe di supporto dei cavi dell’impianto elettrico o piccoli vani portaoggetti.
Nel 2016 la stessa Ford ha siglato un accordo con la messicana Jose Cuervo, il maggior venditore di tequila nel mondo (detiene oltre il 35% del mercato globale), per esplorare l’uso della pianta di agave per la produzione di bioplastiche da impiegare nei veicoli, sia per la componentistica interna (per esempio i vani portaoggetti) sia per altri usi, come l’impianto di aria condizionata.
Oggi il veicolo medio Ford utilizza da 9 a 18 chilogrammi di plastica rinnovabile, come schiume e guarnizioni a base di soia, schiume e materie plastiche a base di olio di ricino con materiali di rinforzo in fibra naturale. Una caratteristica essenziale che deve avere il biomateriale è la durata. Questo è il motivo per cui il nylon è così usato nell’industria automobilistica. Nessuno – sostengono alla Ford – vuole vedere la propria autovettura che invecchia prematuramente.
Ultima frontiera dell’innovazione firmata dalla casa automobilistica americana è l’inclusione di additivi antimicrobici negli interni delle auto, affinché le persone che usano auto condivise non raccolgano i germi dell’ultimo conducente. Insieme allo sviluppo di materiale autopulente: gli automobilisti sembra siano stanchi di pulire la polvere dal cruscotto. In tempi post pandemia si può prevedere che queste applicazioni saranno protagoniste di una grandissima crescita.
Anche nella scienza, le scoperte accidentali non sono mai puro caso.
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