ABITARE
INSIEME

Cresce il fenomeno della condivisione degli spazi con servizi e aree comuni che migliorano la qualità della vita e responsabilizzano i cittadini verso la comunità e l’ambiente.

Il giardino sul retro delle case a schiera inglesi e del mondo anglosassone in genere è qualcosa di così forte e radicato nell’immaginario da aver ispirato uno dei modi più efficaci per descrivere (e liquidare) i conflitti della politica contemporanea:
NIMBY! Not in my backyard”, letteralmente “Non nel mio cortile sul retro”.

Ma ora il giardino sul retro potrebbe non essere più una certezza o uno spazio da difendere. Il governo britannico ha infatti recentemente promosso il concorso d’architettura Home of 2030 per individuare nuovi prototipi di case e linee di progettazione per l’edilizia del prossimo futuro.

Obiettivo: costruire in modo sempre più sostenibile e garantire condizioni di vita indipendente e appagante per una società che invecchia sempre più.

Risultato: quasi tutti i finalisti del concorso hanno suggerito il superamento della formula strada-casa-giardino sul retro per proporre invece spazi comuni di fronte agli ingressi dove condividere la cura di orti, alberi e siepi fiorite o partecipare a pranzi e cene di quartiere.

È interessante come sia stato proprio individuato nel verde e nello spazio pubblico il modo per garantire condizioni di vita migliori.

Del resto, se c’è qualcosa che abbiamo misurato concretamente durante le chiusure imposte dall’emergenza Covid-19 è quanto lo spazio pubblico e condiviso sia in grado di garantire un maggiore benessere. Ora sappiamo che differenza possono fare un pianerottolo spazioso, un corpo scale ben aerato e illuminato, un giardino condominiale per chi vive in due locali senza balcone o terrazzo. Figuriamoci spazi pubblici urbani di qualità e ricchi di servizi.

La tendenza era già in atto ben prima dell’emergenza.
Nell’era della sharing economy si erano già imposti nuovi modelli abitativi all’insegna della condivisione. Gli esempi sono tanti in Europa e nel mondo.
Il fenomeno si chiama cohousing e si sta diffondendo nei contesti urbani. Si tratta di condividere servizi con altri – amici, vicini di casa o anche perfetti sconosciuti – sulla spinta di due notevoli cambiamenti in corso: da una parte, una popolazione con più single, più anziani e meno bambini; dall’altra, una crescente consapevolezza dei problemi ambientali.

Così in Gran Bretagna in pochi anni sono sorte oltre venti comunità di cohousing. Tra queste la Marmalade Lane Cohousing, 42 unità indipendenti progettate dallo studio Mole Architects su un lotto di 8600 metri quadrati con aree e servizi comuni: un orto, un’area giochi, una per la socializzazione, una zona rifiuti e la Common House con tre camere da letto che possono essere prenotate dai residenti per alloggiare eventuali ospiti.

Molto più contenuto ma ugualmente interessante l’esperimento londinese di Family Commune, dove due famiglie imparentate hanno deciso di vivere vicine condividendo alcuni spazi e servizi grazie a un progetto di “cucitura” delle due unità dello Daykin Marshall Studio. In questo modo sono ottimizzati la cura dei bambini, le faccende domestiche, lo stoccaggio di scorte alimentari e molto altro.

Completamente diversa l’esperienza di Cohost West Bund a Shanghai, un vecchio hotel nel distretto artistico West Bund Culture Corridor trasformato in uno dei primi cohousing cinesi da AIM Architecture. Qui gli abitanti dei 66 alloggi di varie metrature hanno acquistato un “pacchetto chiavi in mano”: gli interni sono arredati dei minimi dettagli, con aria condizionata e wi-fi. Tutti i costi dei servizi comuni – pulizie, lavanderia, biblioteca, palestra e persino il community manager – vengono addebitati a fine mese in un’unica fattura come “spese di condominio”.

Sono situazioni che implicano la scelta di uno stile di vita più consapevole e responsabile, di un ritorno all’equilibrio nel senso di una fuga dagli eccessi.
Un bisogno sentito anche da molte amministrazioni urbane che si stanno avviando su una nuova strada per lo sviluppo delle proprie città. Parigi, Vienna, Barcellona, Londra, Bruxelles, Milano, tutte hanno avviato politiche di riorganizzazione urbana sostenibile per contenere traffico, inquinamento, sprechi e anche stress.
Il caso più emblematico è quello di Parigi, dove la sindaca Anne Hidalgo ha promosso la creazione di “raggi di attività” per consentire al cittadino di raggiungere ogni servizio essenziale in massimo 15 minuti a piedi da casa propria, evitando così inutili spostamenti, traffico, inquinamento e perdite di tempo.
Un piano simile a quello messo a punto dalla città di Milano, la cui attuazione è stata accelerata dall’emergenza Covid-19.

E a proposito di equilibrio, un’ultima parola va spesa per la bicicletta. Pedalare, come camminare, non costa nulla, fa bene alla salute e non inquina. In città come Amsterdam e Copenaghen, nonostante il clima rigido, tutti usano la bici. Berlino vanta 1600 chilometri di piste ciclabili e Vienna 1400. Parigi ne ha 700 contro i 200 di Barcellona, i 250 di Roma e i 185 di Milano.

Si può e si deve fare molto per migliorare. Il perché lo spiega anche un semplice dato europeo: il 50% delle tratte quotidiane effettuate in città è inferiore ai cinque chilometri. Una perfetta passeggiata a piedi, o su due ruote.

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