L’antimafia si
fa mangiando

Non è affatto vero che il buongiorno si vede dal mattino.
In tal caso, sarebbe stato meglio archiviare il mio spettacolo Mafie in pentola fin dalle prime battute…

L'idea di Mafie in pentola nasce dal desiderio di realizzare un progetto originale che riuscisse a unire le mie due vere passioni: l’impegno civile (da sempre) e lo studio sul cibo, inteso come cultura della legalità e mezzo per raccontare storie di lavoro; uno spettacolo teatrale che rappresentasse un’insolita sinergia fra due mondi apparentemente distanti come memoria e cibo. Il mio autore, Andrea Guolo, ha interpretato in modo eccellente questo desiderio.

Questa possibile sinergia l’ho individuata nell’opportunità di raccontare come nascono i prodotti di Libera Terra, che vengono coltivati sui terreni confiscati alle mafie.
Conoscevo da tempo il gusto unico, per il sapore e per ciò che rappresentano, di quei taralli, quella pasta e quel vino, ma non potevo immaginare, alla vigilia del viaggio, ciò che avrei scoperto nelle storie raccolte tra i lavoratori delle cooperative. 
Già, perché Mafie in pentola - prima di uno spettacolo divenuto storico - è il frutto di un viaggio, che parte dalla Sicilia e arriva fino al Nord, tra i terreni confiscati alla mafia e alla criminalità organizzata e affidati alle cooperative grazie alla legge 109 del 1996, approvata dal Parlamento dopo che Libera - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie aveva raccolto oltre un milione di firme per chiederne l'approvazione.

E allora ho pensato: perché non raccontare ciò che sta dietro a quei prodotti? Perché non scovare le storie di lavoro, speranza, riscatto, vera rigenerazione di quei terreni, utilizzando il teatro come mezzo per raccontare che un altro mondo è possibile anche in paesi come Corleone, Casal di Principe o Isola di Capo Rizzuto? 

L'unico modo per conoscere la verità è andarla a cercare, guardando dritto negli occhi chi te la racconta. Per raccogliere quelle storie dovevo visitare tutte le cooperative e così ho fatto, per realizzare uno spettacolo “nuovo” che ha coinvolto negli anni il pubblico sul palco con ironia e golosità, descrivendo la qualità dei cibi di Libera Terra per aprire - anziché chiudere - gli stomaci degli spettatori.

Mafie in pentola è la trasposizione in prosa di un'inchiesta giornalistica fatta di ore, giorni interi di riprese, registrazioni e dialoghi, migliaia di chilometri percorsi tra voli low cost e utilitarie noleggiate on line. La drammaturgia ne è una diretta conseguenza, e posso assicurare che non è stato affatto semplice sintetizzare settimane di esperienza in un testo di meno di trenta pagine, che oggi racconto in circa 70 minuti. Il senso però è arrivato quasi subito.

Parlo del forte senso di rivincita nella sfida lanciata da Libera e dai suoi lavoratori, in quei terreni. All’inizio non era così. Angelo Sciortino, l’uomo delle vigne di Catarratto, è un cooperante della prima ora. E ci raccontò:

“All’inizio nessuno voleva lavorare in questi terreni. Eppure, stavamo facendo una scelta rivoluzionaria, perché qui i contributi ai lavoratori in agricoltura non li versava nessuno. Noi della ‘Placido Rizzotto’ siamo stati i primi. In tanti, per paura di schierarsi, all’inizio si rifiutarono di lavorare per noi, ora abbiamo richieste di lavoro ogni giorno.”

Storie di riscatto e di rinascita, come quelle di una regione che mi è rimasta nel cuore, la Calabria.
La Valle del Marro, dove sorgono le cooperative dai terreni confiscati alla cosca Mammoliti, è ancora oggi la più esposta agli attacchi dei mafiosi, che bruciano i raccolti e devastano le distese di ulivi, abbattuti per raccogliere legname pregiato. Certe azioni non puntano soltanto a distruggere i frutti della terra, ma anche ad annientare la volontà dei lavoratori. La vigliaccheria della ‘ndrangheta però deve fare i conti con una forza ben più grande della sua: quella della natura. Lo racconto all’inizio dello spettacolo, nel capitolo dell’aperitivo: “L’ulivo però è testardo. Insegue la vita, come l’uomo, e animato dalla forza del terreno si riprende, rispunta, cresce...”

C’è anche la mozzarella di bufala della rinascita. Il luogo di produzione è quello più idoneo: Castel Volturno, cooperativa Terre di Don Giuseppe Diana. Qui sorge una delle cooperative più grandi di Libera, 82 ettari, con un caseificio, il primo a trasformare soltanto latte di bufala integrale da agricoltura biologica. Il latte al nuovo caseificio viene conferito dagli allevamenti esistenti nella zona, che a causa della camorra sono andati in rovina e perciò hanno scelto la riconversione al metodo biologico come reazione civile alla montagna di veleni versati nel terreno dalla camorra. La mozzarella diventa così il principale testimone della rigenerazione di queste terre.

Questo viaggio si è concluso alle porte di Torino. Ed è al Nord che si conclude anche il testo di Mafie in pentola, con il dolce e con il racconto delle mafie tra Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto. Nelle prime rappresentazioni, per lo spettatore, era spiazzante ascoltare storie di mafia e di terreni confiscati in queste regioni.

Mafie in pentola dal 2010 a oggi ha conquistato il pubblico; è uno spettacolo senza una distribuzione organizzata, nato dal basso, che è riuscito ad arrivare a 350 repliche in tutta Italia. Perché?
Perché è uno spettacolo utile socialmente, che informa, penetrando nella coscienza del pubblico e comunicando che l’antimafia non è utopia ma azione concreta, possibile, quotidiana, che ognuno di noi può attuare anche solo attraverso l’acquisto consapevole di un prodotto da mettere in tavola, un’antimafia che si fa anche mangiando.
L'idea di costruire la drammaturgia sulla base di un menù della legalità, dall'antipasto al dolce (più un caffè finale, che poi rappresenta il coup de théâtre) ha certamente favorito la sua “appetibilità”.

Lo straordinario viaggio fisico (migliaia di km percorsi su un furgone Ford Transit con i due tecnici dello spettacolo) ed emozionale che Mafie in pentola mi ha permesso di fare in tutti questi anni, attraversando tutta l’Italia dalla Sicilia al Trentino-Alto Adige, non solo ha cambiato il mio modo di stare in scena, di rapportarmi al pubblico, ma anche il senso più autentico del mio raccontare ogni sera quelle storie.
In tutti questi anni di tournée, Mafie in pentola è andato in scena nei posti più diversi, ho conosciuto figli, sorelle, madri vittime di mafia che hanno perduto i loro affetti più cari per questa lotta ma che non si sono arresi al dolore, e anzi: hanno trasformato quel dolore in impegno.
Questi incontri nel mio peregrinare sono stati e sono l’esperienza più intensa del lavoro di narrazione di Mafie in pentola e sono ciò che ha trasformato il mio essere attrice in qualcosa che sento come sacro: ogni sera non mi limito a interpretare una parte, ma sono una testimone sociale di quello che ho visto, ascoltato e vissuto, una testimone del mio tempo. Il mio “fare teatro” si è trasformato in azione di memoria civile per raccontare la rinascita, il riscatto, ma soprattutto la speranza e condividerla con il pubblico: dal peggio, cioè dalle mafie, può nascere il meglio; una terra che rifiorisce e regala lavoro, libertà.

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