La felicità di Epicuro
come riscatto
e rinascita

Ho sempre guardato gli alberi. I miei occhi li cercano in campagna, in città, sui monti; nelle pinete vicino al mare, nei giardini, fra i sentieri freschi dei boschi.

Degli alberi mi affascina tutto: il tronco che si sviluppa in larghezza oltre che in lunghezza, gli anelli che scandiscono il ritmo degli anni.
I nodi dei rami, e poi le chiome, di foglie che ciclicamente si rinnovano. Mi turbava, nell’infanzia, l’idea di alberi sempreverdi: i pini, gli abeti, le magnolie; i carrubi e gli ulivi, che nell’inverno rimangono vestiti dei loro colori.
Il turbamento nasceva da un’idea balzana come a volte sono le idee bambine: la nudità dei rami nell’inverno, anziché apparirmi desolata, mi raccontava di un momento di riposo, di una pausa necessaria alla rinascita. Così, quando mi è stato spiegato che anche i sempreverdi perdono le foglie, gradualmente, e ne hanno di nuove che si riformano e tornano a splendere via via, mi sono rappacificata con la loro illusoria immobilità.
Era un’intuizione di metafora: avvertivo, senza rendermene conto, quanto fosse importante la dialettica del cambiamento, nelle vite degli alberi che segnano il tempo negli anelli, nelle nostre vite di animali umani – che il tempo lo misuriamo, e misuriamo i cambiamenti, reversibili o irreversibili che siano.  

Alberi sempreverdi – lecci e ulivi, e chissà, forse anche una magnolia antica – mi piace immaginarli in un giardino la cui storia sconfina nel mito, almeno per chi ama la storia della filosofia nei suoi primi secoli, quando era una disciplina giovane e scattante, avventurosa e appassionata al modo in cui lo si può essere nel pieno rigoglio della meraviglia.
Quel giardino era noto con l’articolo determinativo: Il Giardino ( κπος), anche se a ben guardare la sua vocazione era più che altro quella di orto. Chiudo gli occhi e lo vedo, rigoglioso di ortaggi freschi, di frutta che matura sotto il sole di Atene; lungo i vialetti, sotto il porticato, intanto, si parla dei misteri della vita, della materia che si compone in movimenti vorticosi e, soprattutto, di felicità.

In quel giardino ateniese, fra IV e III secolo avanti Cristo, le foglie degli alberi, che purtroppo la legge del tempo ci impedisce di vedere, vibravano alla voce di uno dei filosofi più straordinari che il mondo abbia conosciuto: Epicuro, che fondò la sua scuola – con annesso orticello – insieme a uno schiavo, in un tempo in cui gli schiavi apparivano al senso comune qualcosa di meno che esseri umani. Ma non a lui, che al senso comune si ribella, e apre le porte del suo giardino agli schiavi e alle donne, a costo di attirarsi gli strali dei detrattori – la sua, infatti, è di gran lunga la più bistrattata e calunniata delle scuole antiche: forse anche per questo il coraggio del suo pensiero splende così luminoso.

Dell’insegnamento di Epicuro ci restano testimonianze che saranno pure lacunose – a causa sempre della legge del tempo, che rigenera foglie ma deteriora parole antiche, fra incendi, saccheggi e semplice usura – ma ci parlano in una lingua che riluce a distanza di secoli, e ci insegnano una lezione preziosa, da non dimenticare in questo momento che pare congelare la speranza di rinascita in una paralisi pigra di pessimismo. Epicuro parla a donne e uomini disorientati, che attraversano una fase storica di crisi: il mondo della pòlis si allarga, i confini si dilatano, l’avventura dell’Ellenismo comporta uno stravolgimento dello stato dei cittadini, che si ritrovano sudditi.

In mezzo al trambusto del cambiamento, ha l’acutezza di scegliere bene il suo bersaglio: le paure che intristiscono, ricattano e immeschiniscono. Quelle che secoli dopo un epicureo moderno, Baruch Spinoza, chiamerà passioni tristi, e che assediano oggi la nostra idea del posto che possiamo occupare nel mondo, irrigidendoci in difese ridicole di minuscole identità, facendoci cadere nella trappola della chiusura come antidoto a tutto.

La felicità, che per Epicuro si nutre del sentimento sociale della philìa – di uno sguardo solidale, generoso e aperto allo scambio con il vivente – è il lasciapassare che traghetta fuori dall’ombra ricattatoria delle passioni tristi. La felicità ci ricorda che siamo un piccolo bosco che cresce all’unisono; ci rende immuni alla superstizione, ci aiuta a superare lo smarrimento, gli leva il potere di paralizzarci.

Oggi le parole di Epicuro sulla felicità come ipotesi sempre possibile, collettiva, che non è mai tardi per perseguire nella consapevolezza, ci restituiscono alla promessa di una vita lontana dal doloroso ricatto della competizione.
Ci riconducono alla nostra responsabilità di esseri viventi e pensanti: quella di tornare a fiorire, accettando la necessità dell’inverno, dell’apparente inerzia, come una tappa essenziale per la rigenerazione.
E ci invitano a risvegliarci e germogliare di nuovo, dopo la paralisi che ci ha messi a maggese.

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