Leggere e costruire l’identità

I libri non risolvono problemi di tipo pratico. Non fanno superare le crisi economiche, non scongiurano le guerre, non provocano la caduta dei peggiori governi, non evitano calamità private quali i divorzi o le liti coi parenti. Non riportano al presente gli amori perduti. E tuttavia, possono salvare la vita. O meglio, quella particolare forma di vita (una vita amplificata, più ricca e più profonda) che spetta a chi si fa toccare dal demone della lettura. A me è successo.

Umberto Eco sosteneva che chi non legge, giunto a 70 anni, avrà vissuto giusto il tempo della propria età anagrafica. Chi legge avrà alle spalle una storia assai più lunga: c’era quando Caino uccise Abele, quando Ulisse ingannò Polifemo, quando Catherine baciò Heathcliff, quando l’infinito si sprigionò dalla chiusura di una siepe, a Recanati. Era sempre Eco a sostenere che il libro, come il cucchiaio, è un’invenzione definitiva. Difficile migliorarlo. Quasi impossibile trovare uno strumento in grado di trasmettere il pensiero umano (quella singolare commistione di intelligenza, sentimento e capacità immaginativa) con la stessa fedeltà di cui è capace la lingua letteraria stampata su sottili pagine di carta.

Ma tutto questo, a cinque anni, io non lo sapevo. Vivevo in una casa dove i libri non entravano. I miei genitori erano figli di coltivatori diretti, a propria volta figli di mezzadri. Grazie al boom economico si erano tirati fuori da una lunga tradizione di povertà e analfabetismo a cui i loro avi erano stati, per così dire, fedeli a lungo. Mio padre leggeva qualche quotidiano dopo pranzo. Mia madre aveva letto dei romanzi in gioventù, ma adesso non aveva più tempo. Se volevo trovare libri, dovevo andare dai nonni materni. Questo era strano. I miei avevano un livello di istruzione superiore a quello dei propri genitori. Eppure i nonni, a cui la lettura di un romanzo risultava più difficile che potare una vite, ritenevano che una casa con dentro qualche libro fosse sinonimo di civiltà. I libri erano la garanzia di un nucleo famigliare vivo, in un Paese libero e moderno.
In certe case contadine esisteva il mezzanino. Un livello intermedio tra il piano terra (dove c’era la sala da pranzo, la cucina e, collegato sull’esterno, un piccolo orto) e il primo piano (dove c’erano le camere da letto). Nel mezzanino dei miei nonni si apriva una stanza buia, metà ripostiglio e metà dimora degli gnomi, soffitto bassissimo, un letto dove un adulto avrebbe potuto stare solo rannicchiato. Velluto alla finestra. Un vecchio comodino e soprammobili di vetro.
I libri erano custoditi in quella stanza.

La mia libreria conta oggi qualche migliaio di volumi. Scorro i dorsi con la mano, percorro la mia grammatica sentimentale. Eppure questi tanti non ci sarebbero mai stati senza quei pochi. I libri del mezzanino nella casa dei miei nonni erano sei: La Divina Commedia di Dante Alighieri, I promessi sposi di Alessandro Manzoni, Cime tempestose di Emily Brontë, I miserabili di Victor Hugo, Peter Pan di James Matthew Barrie, Il principe felice e altri racconti di Oscar Wilde.
Quando andavamo a trovare i nonni, trascinavo mia madre nel mezzanino implorandola di leggermi uno di questi libri. Ci mettevamo scomodi sul lettuccio degli gnomi, accendevamo l’abat-jour che illuminava giusto lo spazio che circondava le sue mani. Mia madre sollevava il volume e cominciava a leggere. Io ero scaraventato in un altro mondo.
Che fosse il viaggio oltremondano di Dante o la follia amorosa di Heathcliff e Catherine, non ascoltavo solo una storia appassionante. Sentivo con chiarezza (lo sentivo come attraverso un senso sconosciuto, come se all’interno del mio corpo fosse spuntato un organo supplementare) che la mia mente si sovrapponeva con estrema fedeltà al percorso che avevano compiuto le menti di quei grandi scrittori. La voce di mia madre, intenta nella lettura, deponeva tutto questo dentro di me, lasciando che si materializzasse in una misteriosa zona che partecipa di cuore e di cervello, di stomaco e di spina dorsale, e a cui gli antichi davano il nome di “anima”.

Se ciò che ci distingue dagli altri animali è l’uso del linguaggio, sosteneva Josif Brodskij, e se la letteratura è l’operazione linguistica suprema, allora è anche la nostra destinazione di specie, la nostra meta antropologica.

Dopo la stagione incantata del mezzanino, sono diventato un lettore accanito. Romanzi. Poesie. Molti fumetti. Divoravo un libro al giorno. Mi immergevo in quelle trame trascurando tutto il resto, studio scolastico compreso. Sentivo crescere dentro di me l’organo supplementare di cui ho parlato. Credo sia l’equivalente laico di ciò che per certe tradizioni religiose è il terzo occhio.

Attraverso la lettura mi è sembrato di arrivare a sentire il mondo in modo più complesso, più intenso, più profondo, mi è sembrato di sentire gli altri, e di conseguenza anche me stesso, con una forza che non avrei avuto. Mi è sembrato, soprattutto, di poter diventare gli altri, una disciplina sempre meno praticata in un’epoca di narcisismo e autorappresentazione continua.

Leggiamo Gustave Flaubert e diventiamo Emma Bovary, attraverso Virginia Woolf siamo Clarissa Dalloway, con Dostoevskij ci immedesimiamo nei fratelli Karamazov, e quando leggiamo Jack London ci trasformiamo addirittura in un cane, in un albero, in un cielo stellato!

Troppo spesso viviamo chiusi nell’angusta prigione di un ego malaticcio. La lettura può farci evadere da quella gabbia. Non è guardandoci allo specchio che capiremo chi siamo. Ci conosciamo, e costruiamo la nostra identità, solo attraverso agli altri, grazie a un continuo gioco di differenziazione e identificazione, di lontananza e prossimità, che è nostro compito innescare.
Saper riconoscere gli altri (fino all’immedesimazione) è dunque decisivo. Ma la lettura può prenderci per mano per trascinarci in un’impresa ancora più audace: farci sentire meno soli ricongiungendoci al mondo, a ciò che chiamiamo natura e dovremmo forse dire cosmo. Diventare grazie ai libri un altro uomo, una ragazza, un bambino, un vecchio, un soldato, un prete, un’amazzone, un tiranno, un eroe, un essere ordinario a cui succedono cose straordinarie, e ancora diventare un gatto, una balena, un cavallo, un unicorno, un drago, un filo d’erba, un albero, un alito di vento… fino a quando, libro dopo libro, trasformazione dopo trasformazione, arriviamo finalmente a sentire che siamo parte del tutto – noi, gli altri animali, gli alberi, i fiori, ogni scheggia di creato: tutti compresi nel respiro universale.

Rompere la triste barriera che ci rende soli e autoreferenziali è uno dei compiti più importanti che il XXI secolo ci ha assegnato. Non siamo al centro di una scena che ci è estranea, ne facciamo parte. A ben guardare non esiste neanche un vero centro: galleggiamo scambiandoci di posto di continuo, siamo ovunque, contemporaneamente, in una danza cosmica che esplode a ogni battito di ciglia. I libri – questi vecchi amici, maestri di liberazione interiore – possono ricordarcelo.

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