Le strade della sostenibilità alimentare

In questo contesto di crisi economica, climatica, ambientale, sanitaria, il termine “limite” non mi ricorda tanto uno slancio muscolare verso il superamento degli ostacoli, delle barriere, delle fragilità, ma mi richiama alla mente piuttosto un senso di umiltà, nel suo significato etimologico (da humus = terra).

La parola mi suona come una sorta di monito, un invito a fare un passo indietro, a rallentare, a ritrovare un equilibrio.
Un monito che ha a che fare con il rispetto delle altre forme viventi (le piante, gli animali, persino i microrganismi) e degli ecosistemi (dalle terre alte alle pianure, alle acque).
E forse, prima di ogni altra cosa, mi fa pensare al modo in cui ci nutriamo e, soprattutto, ai cibi di origine animale.

Penso ai dati impressionanti sulla produzione e il consumo di carne, ad esempio. Dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi la produzione globale di carne è aumentata di ben 5 volte, passando da 45 milioni di tonnellate a 300 milioni di tonnellate, e secondo le stime della FAO è destinata a raddoppiare entro il 2050.
Dietro questi numeri c’è un radicale cambiamento culturale: l’allevamento, che era una componente essenziale della società rurale, è diventato un’industria, ha prodotto stabilimenti sempre più grandi e inquinanti.

GLI ANIMALI SI SONO ALLONTANATI DALLA TERRA

Chiusi in stalla e trasformati in mezzi di produzione. Le loro deiezioni non fertilizzano più il suolo, ma sono rifiuti speciali. Pur essendo animali erbivori, non brucano più l’erba: si cibano di mangimi che arrivano da oltreoceano.
Per rispondere alla domanda crescente di mangimi, si moltiplicano monocolture di mais e soia transgenica che distruggono la foresta amazzonica, la più grande foresta pluviale del mondo cui dobbiamo un quinto dell’ossigeno presente sulla terra.

L’area brasiliana coltivata a soia, per fare solo un esempio, è grande come la Germania. Nelle terre del Brasile va a finire il 25% di tutti i pesticidi prodotti nel mondo. Un fiume di veleni che raggiunge le nostre tavole sotto forma di bistecche.

ORA LA NATURA CI HA PRESENTATO IL CONTO

Lo ha fatto prima gradualmente con la crisi climatica, poi in modo traumatico, con la pandemia.
Il virus che ha stravolto le nostre vite non è un incidente isolato. Il 60% delle malattie infettive degli ultimi anni ha origine negli animali, soprattutto selvatici. Il Covid è una di queste, ma sono di origine zoonotica anche l’Ebola, l’AIDS, la SARS, l’influenza aviaria.
La zootecnia industriale, legata a doppio filo all’agricoltura intensiva (necessaria per produrre i mangimi) ha una responsabilità enorme.
Quando erodiamo la biodiversità di un ecosistema, distruggiamo dei cuscinetti che ci proteggono e i virus passano più facilmente agli animali addomesticati e poi agli esseri umani.

Ci stiamo affannando a correre ai ripari con soluzioni tecnologiche, ma il problema sta a monte, nella premessa. Non possiamo continuare a considerarci altro dalla natura, dagli animali, dalle piante.
Conviviamo sullo stesso pianeta e possiamo sopravvivere solo se riconosciamo i legami, le connessioni tra tutti gli esseri che popolano il pianeta. I limiti insomma che ci pongono gli ecosistemi.

Non stiamo immaginando di rinunciare alla carne, al latte, alle uova, perché senza animali allevati non sarebbe possibile un’agricoltura sostenibile, e senza pastorizia non avrebbero futuro le nostre montagne.
Stiamo pensando piuttosto a un allevamento di qualità, legato indissolubilmente a terreni sani, a prati e pascoli ricchi di biodiversità, basato su razze adatte ai diversi territori sui quali nel tempo si sono evolute, fondato sulla relazione quotidiana e diretta fra allevatori e animali, fra gli animali e il loro contesto naturale.

LE STRADE DELLA SOSTENIBILITÀ ALIMENTARE

Esistono in tutto il mondo esperienze virtuose, storie straordinarie di giovani casare e casari che si prendono cura di pascoli, boschi, borghi di montagna, di allevatori che mettono al centro dell’attenzione il rispetto per gli animali, che salvano razze autoctone.

Ma questa strada pone dei limiti importanti: alle dimensioni delle stalle, al viaggio delle materie prime, alle quantità prodotte, agli sprechi, al consumo quotidiano di carne e latticini.
In cambio ci regala la bellezza dei paesaggi ricchi di biodiversità e ci restituisce la salute e il sapore di cibi più buoni, puliti e giusti.

Slow Food promuove la campagna internazionale Slow Meat per sensibilizzare i consumatori a ridurre il consumo di carne e a fare scelte più sane e consapevoli, scegliendo allevamenti sostenibili e rispettosi degli animali.

Sappiamo infatti che, con il 14,5% delle emissioni totali di gas serra, il settore zootecnico è una delle principali fonti di gas climalteranti, più del settore dei trasporti (13%); il 23% dell’acqua dolce disponibile sul pianeta è utilizzato per l’allevamento del bestiame. Inoltre i ruminanti emettono metano (CH4) che è 30 volte più potente della CO2.
Come se non bastasse, un terzo delle terre coltivate nel mondo inoltre è utilizzato per coltivare un miliardo di tonnellate di mangimi, soprattutto soia e mais; queste colture intensive necessitano di pesticidi e fertilizzanti chimici che distruggono la biodiversità del suolo, riducendo la fertilità nel tempo. 

C’è abbastanza terra, acqua e aria nel mondo per soddisfare i bisogni di tutti, ma solo se adottiamo abitudini di consumo più equilibrate e aboliamo lo spreco alimentare.
Un miglior sistema di allevamento è possibile.

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