COMUNICARE LA SFIDA DELLA SOSTENIBILITÀ

Da qualche tempo, due parole hanno fatto irruzione nella comunicazione mediatica e anche nella pubblicità: la parola “sostenibilità” e la parola “futuro”.

Lo stimolo a occuparsi di futuro è arrivato anche dalla pandemia: è diffusa la percezione che il domani sarà diverso dal passato, con molte più incognite, e che richiederà comportamenti nuovi.

La sostenibilità dovrebbe essere la chiave di volta di questi comportamenti e innumerevoli prodotti e servizi vengono offerti garantendo di avere questa caratteristica. Del resto, la forte crescita delle notizie sul cambiamento climatico negli ultimi anni ha accentuato la sensibilità delle persone sulla sostenibilità.

Tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza dell’opinione pubblica è preoccupata per la crisi del clima, anche se non ha ben chiaro che cosa si deve fare.

LA RESPONSABILITà
DELLA COMUNICAZIONE

Il problema è che ci mancano informazioni essenziali per delineare un futuro sostenibile. Abbiamo una bussola, rappresentata dall’Agenda 2030 dell’ONU, con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile e i suoi 169 target misurati in tutti i 193 Paesi dell’ONU che nel 2015 hanno sottoscritto questo documento. Se questi Obiettivi fossero tutti raggiunti (ma purtroppo non avverrà) il mondo sarebbe certamente in condizioni migliori per affrontare il futuro. Ma anche così non saremmo certi che l’umanità possa affrontare la crisi della prima metà del secolo senza drammatici sconvolgimenti del suo livello di civiltà.

Ci muoviamo infatti in un territorio inesplorato, senza sapere se abbiamo superato quei limiti, i cosiddetti tipping points oltre i quali non è più possibile tornare indietro.

Mi spiego con due esempi.

Il primo riguarda proprio il clima. L’impegno mondiale, derivante dagli Accordi di Parigi del 2015, è di mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5 gradi, ma già si dice che sarà difficile rimanere entro i due gradi e che anzi siamo attualmente avviati verso i tre. Ma non stiamo parlando di fenomeni lineari: un aumento di tre gradi non ha effetti doppi di un aumento di un grado e mezzo, ma potrebbe innescare fenomeni nuovi, come lo scioglimento del permafrost alle latitudini artiche o il cambiamento delle correnti marine, con effetti ben maggiori sulle condizioni di vivibilità del pianeta.

Il secondo esempio riguarda l’uso delle risorse. Il calcolo dell’Earth Overshoot Day ci dice che già adesso consumiamo ogni anno quasi il 70% in più delle risorse prodotte dalla Terra in quell’anno. Nel 2050 la popolazione mondiale (attualmente di circa 7,8 miliardi) supererà i nove miliardi. Ci auguriamo che tutta l’umanità sia uscita dalla povertà e anzi, secondo i calcoli della Banca Mondiale, la cosiddetta classe media - quella che guadagna tra i dieci e i cento dollari al giorno, attualmente composta da circa due miliardi di persone - potrebbe superare i cinque. Tutto questo fa prevedere un boom dei consumi: automobili, carne, energia per soddisfare una domanda crescente. Come conciliare questo aumento della domanda con i limiti del pianeta è una delle grandi questioni irrisolte da affrontare nei prossimi anni.

LA RESPONSABILITà
DI FINANZA E POLITICA

La scommessa che abbiamo davanti riguarda tutti: la politica, le imprese e la finanza, la società civile, i comportamenti individuali.

Il mondo delle imprese si sta ponendo seriamente il problema, per la sua stessa sopravvivenza. Si diffonde il cosiddetto “reporting non finanziario”, cioè i bilanci che tengono conto della responsabilità delle imprese nei confronti degli stakeholders (dipendenti, consumatori, comunità locali, ambiente) secondo i criteri “ESG”, Environment, Social, Governance.

Anche la finanza cambia le sue priorità: molti fondi di investimento scelgono di non finanziare più la produzione di combustibili fossili, mentre si diffondono i green bonds, le obbligazioni legate a comportamenti “verdi”, compresa la prima emissione di bond europei per finanziare il Next Generation EU.

Il nodo più difficile riguarda però la politica. Affrontare veramente le sfide della sostenibilità significa guardare ai problemi in un’ottica di medio e lungo termine, facendo anche scelte impopolari. Per esempio, la mitigazione del cambiamento climatico comporta un grande impegno verso i Paesi in via di sviluppo, che hanno comunque la necessità di crescere e quindi aumenteranno i loro consumi di energia. Per evitare che questo si traduca in un aumento delle emissioni climalteranti, è necessario aiutare questi Paesi a scegliere le fonti più pulite, anche se temporaneamente più costose, con consistenti trasferimenti di fondi e di tecnologia. A questo scopo, da anni i Paesi più ricchi hanno promesso di finanziare un Green Climate Fund con 100 miliardi di dollari all’anno, e l’impegno è stato ribadito anche in occasione dei vertici di queste settimane, ma il finanziamento del Fondo è in grave ritardo.

LA RESPONSABILITà
SOCIALE

Le spinte “dal basso” che provengono dalle organizzazioni della società civile, dai giovani, dall’opinione pubblica sono certamente utili per accelerare il cambiamento.

Dobbiamo però chiederci se queste spinte corrispondono a una effettiva disponibilità ad accettare i sacrifici e i cambiamenti nei consumi imposti dalla costruzione di un mondo sostenibile. La transizione ecologica (che comprende sia l’energia, sia un diverso modo di trattare le risorse del pianeta) è necessaria, ma non è necessariamente giusta dal punto di vista sociale.

Per esempio, un aumento dei prezzi indotto da una “carbon tax”, che tassi beni e servizi in relazione alle emissioni necessarie per produrli, colpirebbe maggiormente le fasce sociali più deboli.

Una strategia efficace per la transizione deve dunque sostanziarsi in misure efficaci, ma richiede anche la capacità di mantenere il consenso sociale attraverso scelte di riduzione delle disuguaglianze e una adeguata comunicazione.

 

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